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Morti che (ri)suonano

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Che l’industria discografica sia in crisi di vendite è un giudizio quasi fin troppo scontato e che già ha trovato espressione in altri articoli del nostro spazio. Cause molteplici; mutamento del modo di “consumare” musica, dell’idea stessa di intendere il prodotto artistico discografico, grande utilizzo della rete per il download illegale… Cose che si sanno insomma, o forse si sono sentite dire. Fatto sta che qualcosa nel meccanismo si è inceppato. Il problema è ovviamente farlo ripartire, o quantomeno farlo rimanere a galla. Non stupisce quindi che in vetta alle classifiche di vendita si trovino principalmente tre categorie di artisti:

  • idolo dei teenager del momento (si legga boy band, vincitore di talent show, etc.)
  • band o artista con grande carriera alle spalle che torna dopo un lungo periodo di silenzio (vedi proprio in questi giorni i nuovi lavori di AC/DC, Vasco Rossi, Pink Floyd, etc.). Includo in questa categoria anche i vari remastered, i live, i best of, i cofanetti, etc.
  • album postumo di artista che ha segnato la storia della musica in modo indelebile

Tralasciando un discorso sulla qualità delle produzioni dei primi due punti (in larga parte discutibile, almeno a mio modesto parere), vorrei proporvi una riflessione solo sul terzo punto. Che importanza hanno, se ne hanno una, gli album postumi?

Prima una brevissima considerazione: il discorso risulterà sicuramente parziale, come tutte le generalizzazioni, specialmente in un panorama vastissimo come quello musicale, ma credo che si possano trovare alcuni spunti comuni. Qualsiasi critica sarà sentitamente apprezzata (come del resto è insito nello spirito del nostro blog).

Un album postumo è, per definizione, un lavoro pubblicato dopo la morte dell’artista in questione. Ci verrebbe subito da dire che questa è un ottima trovata di marketing: si sfrutta l’onda emotiva del momento successivo alla scomparsa dell’artista per fare un bel po’ di guadagni. In parte tutto ciò è sicuramente vero: è un fatto innegabile che alla morte di un musicista di spicco i suoi dischi registrino un incremento di vendita sorprendente (i recenti casi di Michael Jackson e di Lou Reed ne sono una buona prova). Ancor meglio sarebbe se si riuscisse a raccattare qualche brandello di pezzo che era ancora in lavorazione, preparare un bell’album di inediti e pubblicarlo il più presto possibile. Operazioni che sono state fatte, quasi con una speculazione morbosa sul lavoro di chi non c’è più, basta che si riesca a vendere insomma. Il fatto è che quasi sicuramente questi prodotti vendono! Il fan più accanito non aspetta altro che l’ultimo lavoro del suo artista preferito, legge il nome sulla copertina e lo compra subito, come dargli torto? A perderci è però molto spesso la qualità, tenendo anche conto che il lavoro dell’artista tende a scomparire e a dissolversi nelle mani di chi ha rielaborato e fatto “un collage” dei vari brani rimasti incompiuti. L’album postumo è in definitiva solo un buon modo che le case discografiche utilizzano per fare ulteriori soldi sulle spalle di chi già in vita gli ha già fatto fare grandi affari.

D’altra parte lavori del genere possono anche avere dei pregi, se ben eseguiti. Ad esempio possono accrescere la nostra conoscenza su un aspetto, delle influenze, dei progetti futuri, delle collaborazioni, un concerto memorabile e tanto altro che era nella produzione di un artista e che purtroppo non ha potuto vedere la luce durante la sua vita. Un album postumo può farci vedere ciò che sarebbe stato in grado di fare un musicista se fosse rimasto ancora per un po’ con noi, ci permette di ammirare ancora una volta e in una veste nuova chi ci ha lasciato qualcosa di rilevante. L’album postumo è un ulteriore testimonianza della potenza espressiva e artistica di un grande personaggio della musica.

Un esempio tra i tanti casi che mi possono venire in mente trattando quest’argomento, è quello di Jimi Hendrix, il grande chitarrista scomparso prematuramente a soli 27 anni nel 1970. Basta dare un occhiata alla sua discografia per rendersi conto di un dato estremamente interessante: in vita riuscì a pubblicare solo 5 album (tutti bellissimi, ve ne consiglio vivamente l’ascolto), mentre ne sono stati pubblicati postumi ben 25 (senza contare i vari bootleg, le riedizioni etc.). Il caso di Hendrix esemplifica le due posizioni sopra descritte: insieme ad album palesemente privi di capo e coda, composti di accorpamenti fra registrazioni diverse, outtakes, brandelli di canzoni e altro materiale d’archivio integrato con parti strumentali registrate ex novo, ci sono anche dei lavori molto validi che contengono brani considerati fra i migliori della sua produzione o che raccolgono sue reinterpretazioni di pezzi e artisti che l’hanno influenzato. La differenza tra i due stili sta nel lavoro di chi ha curato queste produzioni, come dicevo sopra: i primi realizzati dal produttore discografico Alan Douglas, che non aveva mai lavorato a stretto contatto con Jimi, i secondi supervisionati dai suoi familiari o dall’eterno Eddie Kramer, ingegnere del suono che seguì Hendrix praticamente per tutta la sua traiettoria artistica. Difficile quindi pronunciarsi in modo definitivo su questo marasma di album postumi.

Due partiti quindi e due opinioni opposte riguardo agli album postumi. Personalmente propendo per una posizione più conciliante, ritenendo che sia giusto conoscere e approfondire il retroterra della produzione di un musicista, senza però esagerare andando a cercare di pubblicare l’impossibile. E voi da che parte vi schierate?

 



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